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Haute Couture 2019: gli abiti ritornano fastosi, Armani insegna il mestiere

Haute Couture 2019: il pericolo è di accavallarsi con il ready to wear, le Maison forzano la mano su volumi, slogan e citazioni extratestuali

Anche questo luglio abbiamo spiato l’inavvicinabile Haute Couture, ma quanto è stato efficace questo appuntamento nella sbrindellata immaginazione di massa?

La rapidità e la saturazione dell’offerta visiva unita a una morente sensibilità estetica e a una ridotta concentrazione dei pubblici stanno complicando il mestiere dei designer, così l’Haute Couture, che rischia di crollare dalla sua torre d’avorio a questo giro “ci va giù pesante” per non passare inosservata.

Pesante: l’Haute Couture inverno 2019-20 è stata un po’ “faticosa”

Ho scritto pesante, perché pesanti erano le idee e quindi i materiali, le lunghezze, i volumi, i colori e i significati. Sembrava che un’urgenza inquietante tormentasse l’inventiva dei creativi. Questa urgenza si è trasmutata così nel bisogno di dover comunicare qualcosa di grandioso o rilevante ad ogni costo tanto da far rimpiangere il silenzio. Un silenzio luminoso, antimaterico, autentico, essenziale, vero. 

Siamo stati cullati a lungo da una nenia che ci raccontava la favola dell’Haute Couture come divinazione concepita da un “creativo-medium”, poi elaborata in segreto da operose e sapienti mani ed, infine, mostrata al mondo tramite gli occhi o gli schermi di una ristrettissima cerchia di privilegiati.

L’Haute Couture, quindi, si è sempre imposta nel sistema Moda come custode armigera del sacro fuoco simbolico delle Maison. Attraverso gli abiti e incredibili show le collezioni Haute Couture parevano essere tenute sospese da dita angeliche in un perpetuo oscillare tra le più nobili delle arti.

L’Haute Couture è sempre stata il beato traino simbolico della moda industriale (prêt-à-porter)

come rassicurazione per gli investitori e come dimostrazione tangibile della corposa potenza economica dei marchi, in poche parole: come garanzia di prestigio.

Prodigare valore cultuale per pretendere ossequio

ha sempre funzionato, eppure, oggi anche l’Haute Couture non sembra più così immune al pericolo di non essere più ascoltata.

Da questo punto di partenza si è aperta la stagione Haute Couture invernale 2019-20, che più che abiti, intesse slogan incollati come post-it tra ricami, taffetà, velluti e lamé. 

Sopravvivere alla noia è più importante della ricerca della perfezione

Se la moda di Balenciaga non era fatta di opinioni o punti di vista, ma di verità sancite (cit. Q.Conti, p.307)*, oggi, dato che gli abiti da soli rimangono solo abiti muti, c’è chi si attrezza.

L’Haute Couture integra le carenze abbondando di citazioni e stravaganza 

Il regime di Dior, Givenchy e Schiaparelli è notturno, mistico e diffonde un concetto di lusso aptico, lo si può toccare con lo sguardo tanto è solido, iperdettagliato e iperbolico.

In linea generale c’è un lampante ripiegamento dello stile sui vecchi fasti delle crinoline, della sperimentazione tridimensionale -Iris Van Herpen –e dell’abito scultura. Talvolta i look divengono impegnativi persino da mirare, poiché ridondanti di colori, decorazioni e iperboli.

Tornando in casa Dior la Chiuri imbottisce lo spettacolo di parole, didascalie e (chiaramente) empowerment. Per la scenografia assolda l’artista femminista Penny Slinger mentre il “manifesto” della collezione celebra la moda oltre la moda. Il punto di partenza è tal Rudofsky architetto poliedrico e autore del saggio “Are clothes modern?“, nonché curatore dell’omonima mostra allestita al Moma di New York nel 1944.

La moda cita la moda contorcendosi su se stessa e fagocitando sbrigativamente la filosofia del vestire in stringatissimi concetti (da post-it, come scrivevo sopra).

Questi abiti “parlano troppo” e non si sa bene cosa vogliano dire.

Sempre in Maison Dior, tra le tante cose, viene particolarmente esplicitata la relazione fra abito e abitare, un rapporto che insiste sul dialogo fra moda e architettura come discipline del progetto che si relazionano primariamente al corpo umano e alle sue proporzioni. Un po’ troppi concetti no?

Da Valentino, Piccioli -con applausometro alla mano- si trincera dietro il solito tema dell’ inclusività e fa il pieno di consensi e salamelecchi pur mandando in passerella una pleonastica, fastidiosa “stravaganza” di colori, tessuti, volumi e dettagli che suonano come musiche celestiali all’orecchio dei perbenisti.

Non male la gestazione di Chanel Haute Couture che si compie rigorosa e sincera. Lo sguardo femminile della Viard si sente, le silhouette si allungano e si ammorbidiscono in lunghezze liquide senza perdere di sobrietà ed eleganza.

L’unico che dimostra che gli abiti possono ancora bastare a loro stessi è Armani

Armani Privé è la perfetta sintesi di ricercatezza, contemporaneità e sofisticazione. Questa collezione sboccia in un fresco rigore che ossigena gli sguardi spenti della folla. La luce penetra anche i neri, tutto è leggero e vivo. I look snelli, eterei e scivolosi emanano un aspetto profumato e regale. 

Nota molto positiva per il debutto di Daniel Roseberry new entry da Schiaparelli -ex Thom Browne- . Quando non eccede nei colori il suo ideale estetico si muove sulla scomposizione del busto e sulla sperimentazione indossabile. Il mood è piacevolmente sensuale e provocatorio. 

 “abbiamo bisogno di fantasia in tempi complicati” 

Daniel Roseberry

Ha ragione e speriamo sia la persona giusta per rilanciare Schiaparelli una volta per tutte. 

 

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immagini via Businessoffashion.com

 

 

 

 

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