Guccifest: un colossal a episodi ambizioso, forse troppo
Guccifest, che ha sostituito l’evento tradizionale della sfilata assecondando, le tempistiche, i criteri e i tormenti di Alessandro Michele è stato un progetto presentato sui social e su una piattaforma dedicata -Guccifest.com- sia per la promozione pubblicitaria della nuova collezione, sia per mettere in atto una vera e propria captatio benevolentie attraverso la presentazione di 15 nuovi giovani designer e dei loro film.
Guccifest: il film sul rifiuto dell’eteronormatività, che dimentica il corpo femminile
Nel film a puntate “Overture of something that never ended” il team Gucci per aggiudicarsi autorevolezza e beneficiare di una sorta di immunità alle critiche decide di strafare: il progetto viene ideato e creato insieme a Gus Van Sant, intoccabile vate della regia indipendente, nonché uno dei più famosi autori del filone cinematografico New Queer Cinema, mentre, come protagonista viene scelta Silvia Calderoni una delle più quotate (giustamente) artiste italiane operanti nel teatro di sperimentazione contemporaneo. Graviteranno, poi, intorno a loro altre figure di grande spessore culturale quali lo scrittore e filosofo Paul B. Preciado, il drammaturgo e attore Jeremy O. Harris, il critico d’arte Achille Bonito Oliva e la coreografa Sasha Waltz affiancati a loro volta da “amici” del brand molto più pop come Harry Style, Billie Heilish, Lu Han e Florence Welch. Un colossal più che uno “spot”.
Analizzavo il film oscillando tra fascinazione e dubbio. In “Overture of something that never ended”, infatti, pur assistendo ad una celebrazione della diversità, pur partecipando emotivamente alle incitazioni che Silvia riceve dai vari personaggi per superare quella sorta di disagio malinconico che la (ci) affligge, non ho potuto fare a meno di constatare quanto poco mi sentissi rappresentata in quel colorato mondo di immensamente saggi, poetici e buoni. Proprio in nome della gloriosa affermazione della libertà identitaria, sessuale, comportamentale e vestimentaria non trovavo accenni a corpi flessuosi, seni accoglienti, fianchi, sederi. Nulla. Quelle poche forme che apparivano, infatti, venivano rigidamente camuffate, censurate, in una parola: DETERSE. Deterse e nascoste da un melodioso panismo epidermico floreale, pittorico, architettonico e musicale, così agguerrito e determinato nel diffondere inclusione e speranza, quanto “sbadato” nel sorvolare su una grande fetta di umanità, che seppur riconducibile inequivocabilmente ad uno specifico genere, proprio in virtù dell’amore, della parità di diritti tra persone e della libertà individuale, meriterebbe un grande spazio, visto e considerato quanto umiliante e difficile, sia ancora oggi per molte di noi autodeterminarsi e “vestire i panni” di donne -libere-.
Non ho trovato per niente inclusivo e potente questa insistenza su di un abbigliamento mimetico, su questa sorta di “travestimento” narrato come panacea necessaria e virtuosa, con cui rivendicare la propria esistenza in quanto essere vivente, senza connotazioni imposte da convenzioni esterne. Una soluzione a mio avviso, persino paradossale, poiché, una volta terminate le belle parole, scartando come un bel pacchetto questo involucro armonioso di libertà, tra le mani mi è rimasta solo una nuova dottrina estetica omologante, nonché altrettanto discriminante, rintracciabile in questa legge non scritta, ma evidente:
“Ognuno è libero di essere ciò che è a patto di essere come tutti gli altri“. Solo a me i personaggi intervenuti nel film sono sembrati tutti uguali? Più nel dettaglio, alla fine della visione dei vari film ho colto un unico grande suggerimento :
limare le differenze di genere e individuali fino a rendere le proprie superfici corporee lisce e riflettenti come uno specchio, in modo da poterci proiettare sopra ciò che si vuole. In pratica, divenire la più concreta materializzazione di un’assenza. In nome della libertà, certamente e di Gucci, senza dubbio.
Al di là della risoluzione dello sceneggiato, che rimane una mia opinione, l’intento -apparente- di questo film è stato quello di sensibilizzare l’umanità nei confronti di temi problematici e profondi come voragini quali: il rifiuto dell’eteronormatività, l’omosessualità, il razzismo, l’inquinamento ambientale, il riciclo e sicuramente altri di cui ho perso memoria (grande assente “la fame nel mondo”), questo, almeno, è quello ho annotato. Ma ripensandoci bene mi viene da ridere, mi rido in faccia da sola, perché ho perso solo del tempo: alla fine ho analizzato una pubblicità con gli stessi criteri che usavo nell’analizzare i film di Aleksandr Sokurov o Ėjzenštejn. Anche io sono vittima della stessa bugia: la bugia che mi induce a considerare questi sceneggiati come un qualcosa di distaccato dal loro autentico fine pubblicitario. Alla fine che vi sia piaciuto o meno, che vi siate sentiti bene o male, quello che voleva fare Alessandro Michele era soprattutto elevare i nostri futuri meri atti di sciupio vistoso a veri e propri atti di emancipazione.
Eppure Gucci non è una fondazione benefica e l’idea di spendere 390,00 o 430,00 euro per comprare una t-shirt o 650,00 euro per avere un paio di scarpe da ginnastica nuove non mi solleva lo spirito, anzi, non mi è mai sembrato così assurdo e immorale . Immorale soprattutto oggi, dove i tre quarti della popolazione mondiale sono sfigurati e sfiancati da questa sorta di gravidanza sanitaria che proprio ora si appresta ad entrare nel nono mese di gestazione e dove le mattine si aprono più buie delle albe notturne. Era solo fine settembre quando il Presidente di PVH, Stefan Larsson, commentava questa difficile situazione così: -in questo momento- “siamo tutti guidati – da ciò che ci sembra-realmente- importante e significativo“.
Questo l’assunto: se oggi le persone si interessano SOLO a ciò che è importante e significativo, forse, bisogna dare loro cose importanti e significative.
Eppure, per essere importanti e significativi, senza umiliare l’altrui intelligenza, non si possono vendere magliette e braghette con attaccati bignami e audiocassette di seminari di filosofia antropologica di modo che queste stesse magliette e braghette possano continuare a legittimare il loro folle costo ( a maggior ragione in tempi di crisi così drammatici). No. Non ha senso ed è persino offensivo persuadere la gente a pensarlo. Quello che semmai avrebbe più senso, sarebbe, lavorare più onestamente sul prodotto: fabbricare tutto in Italia (non solo la stampa, o l’etichetta), pagare di più i piccoli produttori LOCALI, impegnarsi nel riciclo, applicare ricarichi MORALMENTE ACCETTABILI e via dicendo, ma lasciando sermoni e prediche dentro le chiese e lezioni di politica, sociologia e filosofia a contesti più appropriati.
No. Guccifest non mi ha convinta per niente, ma probabilmente non sono nemmeno in target.
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