Moda 2020: tutto da rifare
Mentre colano lunghe e sbiadite le ore di una prigionia in stile panopticon dettata dall’oligarchia di sedicenti governanti che alle nostre spalle cuciono patti ed elaborano strategie “per il bene comune”, dalle celle delle nostre abitazioni, sempre più poveri, incerti e insani, spiamo passivamente frammenti di narrazioni di ciò che avviene all’esterno sperimentando lo sgradevole, denso torpore di un anziano infermo abbandonato in una clinica per malati mentali.
Abbiamo del cibo, un letto in cui riposare e niente a cui pensare, perché c’è già chi lo fa per noi, dall’altra parte, però, a noi umili e inutili ospiti del pensionato, non è consentita alcuna possibilità di dubbio riguardo quel che ci verrà servito nel menù dell’avvenire, e, tanto meno è accettato il rifiuto ad una cieca obbedienza.
In questo clima di grave miopia generale, dove le informazioni perdono di credibilità come coloro che le producono, la società trasuda da ogni poro di timore. Timore di morte, ma soprattutto timore di non poter più accedere alla vita lasciata fuori dalla porta prima dell’emergenza Coronavirus.
La moda è ufficialmente andata in letargo
Sconsolati e incompiuti, ecco come giacciono i carrelli virtuali riempiti di amenità da dita veloci, come guidate da impulsi arcaici che oggigiorno vengono rapidamente censurati e boicottati da un senso di disgusto e inquietudine.
Il mondo è in quarantena e nessuno ha voglia superfluo, solo il pensiero di sprecare risorse per un nuovo trend appare, peccaminoso per non dire vergognoso. Saldi, sconti, fuori tutto: nessuno vuole sentire annunci pubblicitari.
It seems we are massively entering a quarantine of consumption where we will learn how to be happy just with a simple dress, rediscovering old favourites we own, reading a forgotten book and cooking up a storm to make life beautiful. The impact of the virus will be cultural and crucial to building an alternative and profoundly different world.
Lo shopping è in quarantena
Tra i protagonisti del fashion system c’è chi si adopera nella produzione di mascherine, chi raccoglie fondi e chi si inabissa nella dimenticanza come Atlantide.
I marchi più prestigiosi hanno smesso di comunicare per vendere ed è così che su Instagram fioriscono format di lifestyle volti a intrattenere e trattenere il legame con le proprie comunità.
Dalla cucina all’arte ai viaggi, ogni mondo-brand ricomincia dallo svago, elaborano programmi “distrazione” rassicuranti, talvolta privati e intimi, mentre i dubbi sul prossimo futuro incalzano. Nonostante la fiducia in un repentino rimbalzo delle vendite del settore lusso a fine emergenza, infatti, all’industria moda toccherà ripensare in toto al proprio modus operandi: a partire dalla rilocalizzazione dell’industria, ai volumi di produzione, alla distribuzione, alle tempistiche di presentazione delle nuove collezioni e alla comunicazione con il cliente.
Ripensare il concetto di lusso: “Il lusso non si può più permettere di essere veloce” (G.Armani)
Giorgio Armani ha già le idee chiare. Secondo lo stilista il lusso non si può più permettere di essere veloce, perché necessita di tempo per essere apprezzato. Sembrano dichiarazioni retoriche, ma in questo scenario ci sono tutti i presupposti per fare sul serio: a partire dal ritorno al rispetto per la stagionalità. La sua collezione estiva, non a caso, sarà lasciata nei negozi fino a settembre.
“Trovo assurdo che, in pieno inverno, si possano trovare nei negozi solo abiti di lino, e cappotti in alpaca d’estate, per il semplice fatto che il desiderio di acquistare deve essere soddisfatto. […] Questa crisi è un’opportunità anche per ridare valore all’autenticità. Basta con la moda intesa come “pura comunicazione”, con le cruise in giro per il mondo per presentare idee deboli e intrattenere con show sfarzosi. Gli eventi speciali dovrebbero essere fatti per occasioni speciali, e non come una routine”.
Affamati di consumo: ingrassiamo in proporzione al nostro senso di frustrazione
Oggi tra i pochi giocatori dell’industria ancora in grado di esultare ci sono i player dell’alimentare. Troppo poveri per pensare alla moda, in tempo di guerra si comprano solo beni di prima necessità e proprio tramite lo smodato acquisto di cibo e bevande si esercita ciò che a livello inconsapevole viene da sempre interpretato come sacro simbolo di libertà, una libertà profanata e calpestata come la democrazia da tempi imprecisati, ma pur sempre garantita grazie ad un imperituro consumo. Ancora una volta, proprio il consumo rende accettabile anche l’intollerabile.
Il consumo rimane l’unico diritto concesso all’uomo nella società globale consumistico- capitalistica.
Ora, chi ha il coraggio di salire sulla bilancia?
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